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    Pasolini viterbese: la sua casa nella Tuscia e l’amore per il paesaggio antico

    5:37 am
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    ROMA – “Pasolini ‘viterbese’: la sua casa nella Tuscia e l’amore per il paesaggio antico”. Questo il titolo dell’evento che si terrà il prossimo 7 dicembre a palazzo Patrizi Clementi. A partire dalle ore 16:30.

    Molti i contributi che verranno forniti, a cominciare da quello del soprintendente, arch. Margherita Eichberg, che relazionerà sulla lezione di Pasolini e sul suo appello alla tutela del patrimonio culturale e della bellezza “antica” del paesaggio.

    Il legame forte che lo unì alla Tuscia, soprattutto negli ultimi 5 anni della sua vita, è ben noto. Innanzitutto la folgorazione per la cosiddetta Torre di Chia, che svettava sul panorama con i suoi 42 metri di altezza. E sarà proprio il prof. arch. Renzo Chiovelli a descrivere meglio quella che fu “una fortificazione medievale per Pasolini: Colle Casale”. Non solo, il funzionario della Sabap VT-EM, arch. Giuseppe Borzillo, approfondirà i dettagli di questo “rifugio” per Pasolini.

    In questo prezioso il contributo dell’attore e attuale proprietario della Torre, Gabriele Gallinari, che racconterà cosa significhi vivere ‘casa Pasolini’ ed essere in un certo qual modo ‘all’ombra del mito’, sentire e respirare ancora, in una qualche maniera, la ’sua’ presenza, il suo ricordo ‘tangibile’.

    La Torre di Chia (a pianta pentagonale, merlata alla ghibellina, del XIII sec. e circondata da 17.800 mq di terreno), infatti, è un rudere simbolico che si fa emblema e memoria per tutti i reperti e le bellezze archeologiche del posto. E l’archeologa della Sabap VT-EM, dott.ssa Carlotta Schwarz, illustrerà i beni culturali del luogo nel suo contributo: “Tombe, grotte, pestarole. Il paesaggio archeologico di Chia”.

    E quando si parla di paesaggio, non si può non citare la sua battaglia per difendere l’identità connotante tipica di realtà rurali e rupestri, in contrasto con una cementificazione, un’industrializzazione di massa, sfocianti nell’abusivismo e nella deturpazione del “paesaggio più bello del mondo”, ma anche in una disumanizzazione dei rapporti, dei legami e delle persone.

    Il vero motore per evitare questa pericolosa deriva era la cultura. E perciò si mobilitò a favore della statalizzazione della libera Università della Tuscia, l’unica con un indirizzo in Etruscologia, per uno sviluppo ‘alternativo’ di questa terra. “Sento molto i problemi urbanistici e paesaggistici dell’Alto Lazio e ritengo che la statalizzazione dell’Università potrebbe essere utile a questi fini”, affermò egli stesso. Una lotta per cui si espose in prima persona, come ci ricorda il libro di Silvio Cappelli “Pier Paolo Pasolini: dalla Torre di Chia all’Università di Viterbo”.

    Il testo verrà introdotto dall’autore e dall’editore. Perché presentarlo ora, oggi, qui? Non solo per l’attualità del messaggio di Pasolini; ma perché è nato nella ricorrenza del trentesimo anniversario della sua morte e adesso, nel centenario della sua nascita, si vuole riprendere quel filo conduttore, invisibile eppure così resistente, che egli tracciò. Ovvero “per ricordare la passione da lui profusa nella valorizzazione della cultura e del territorio viterbese”.

    Per dirla con Moravia: “Pasolini interroga il mondo e dice la verità con una capacità profetica che lo rende perennemente attuale”.

    Con i contributi di chi, come Cappelli, l’ha conosciuto fra l’altro in un’occasione particolare: nel 1975, nell’ambito del concorso fotografico internazionale indetto dall’ateneo viterbese, il cui tema fulcro era: “le risorse storico-archeologiche della civiltà etrusca e medievale”.

    E delle ricchezze storico-archeologiche, ma anche artistico-architettoniche, della Tuscia si discuterà il 7 dicembre. Per questo si può anche parlare di Pasolini “viterbese”. Non solo perché la scena del battesimo ne “Il Vangelo secondo Matteo” avvenne alla confluenza del torrente tra Poggio Scoperto e Colle Casale, nei pressi del cosiddetto “Ponte di Chia”. O perché Uccellacci e uccellini (1965) fu girato fra Viterbo e Tuscania. O, ancora, un interno di Medea (1969) è ambientato nei dintorni di Viterbo. Così come Il Decameron (1971), fra Viterbo e Nepi.